Sia la struttura che il linguaggio della ricetta hanno subìto, nei secoli, trasformazioni tutto sommato modeste. L’unica differenza sostanziale che corre tra le ricette antiche e quelle moderne è che in queste ultime sono precisate le dosi, indicati i tempi di cottura, descritti più in dettaglio i procedimenti: ciò si spiega, del resto, col fatto che le antiche raccolte erano destinate da cuochi ad altri cuochi, mentre le moderne, da chiunque compilate, sono perlopiù indirizzate alle massaie e ad un pubblico generico la cui competenza tecnica non può darsi per scontata.
Le ricette di Apicio sono sintetiche e frettolose, e talora disordinate e confuse; la cosa è aggravata dalla dovizia degli ingredienti (non tutti noti) e dalla complessità dei piatti. È rara l’indicazione delle dosi; sommaria la descrizione delle operazioni. Al destinatario delle ricette ci si rivolge con la seconda persona singolare del futuro: “prenderai”, “condirai”, “cuocerai”.
A Napoli all’inizio del ‘300, fu scritto in latino da un cortigiano del re Carlo II d’Angiò uno dei più antichi trattati di cucina medioevali, il Liber de coquina. Il libro riporta ricette provenienti diverse corti, principalmente di influenza francese e napoletana, ma comprendente influssi arabi, spagnoli e di altre regioni italiane. I ricettari medievali – per esempio quelli trecenteschi pubblicati da Ludovico Frati e Salomone Morpurgo – assomigliano molto, per struttura e linguaggio, alle coeve raccolte di “segreti” medico-farmaceutici. Si tratta, in effetti, di stringati recipe introdotti di norma dallaformula “se vuoi fare”, seguìta dalla denominazione del piatto, e conclusi di solito dall’altra formula “e serà bona vivanda” (“e serà bono e perfetto”, “ed è optimo”, ecc.), che ricorda la consueta chiusa “ed è rimedio sperimentato” delle ricette medicinali. Nel rivolgersi al lettore, è usato l’imperativo: “togli” (cioè prendi), “trita”, “stempera”.
Le ricette quattrocentesche di Maestro Martino da Como si distinguono dalle precedenti solo per una più accurata descrizione dei procedimenti e per una maggiore precisione terminologica. Le ricette del suo dotto allievo Bartolomeo Platina, splendidamente concise, sono corredate, di regola, da osservazioni mediche e dietetiche e inframmezzate, talora, da garbati aneddoti.
Tra i ricettari cinquecenteschi, quello di Cristoforo Messisbugo, pregevole e innovativo sul piano gastronomico, è piuttosto convenzionale nella formulazione delle ricette, generalmente sbrigative, ancorché dal ductus elegante. Certamente più conversevoli, talora perfino verbose, sono le ricette di Domenico Romoli, mentre quelle di Bartolomeo Scappi, in impersonale esortativo (“abbisi”, “piglisi”, “si facci”), hanno – come anche quelle seicentesche di Bartolomeo Stefani – qualcosa di ridondante e di pedante.
Nei ricettari della seconda metà del Settecento e in quelli ottocenteschi si impone un gergo greve e barocco, irto di francesismi e idiotismi, che tocca vertici di autentica comicità con Giovanni Vialardi, del cui linguaggio Olindo Guerrini comporrà un’irresistibile parodia. È proprio in polemica col gergo della letteratura gastronomica precedente che Pellegrino Artusi adotta uno stile piano e affabile, accoppiato ad una lingua che è un “accattivante impasto […] toscaneggiante” (Piero Camporesi): ciò che decreterà, in larga misura, la straordinaria e duratura fortuna del suo manuale, che costituirà un modello (o piuttosto il modello) per tutti gli autori di ricettari a venire.
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